TI PENSO SPESSO E MI MANCHI ....
Durante la giornata, lei appare composta, distinta, sicura: capelli freschi di permanente, voce educata, laurea ben incorniciata e lo sguardo di chi sa sempre dove vuole arrivare. Parla con tono aristocratico, saccente ma mai volgare, e si muove tra mondi ovattati e salotti ideali come una regina senza corte. Affascina con misura, ascolta con controllo, poi quando l’altro – il gabbianotto servitore o l’uomo fragile e speranzoso – inizia a chiedere calore vero, lei si ritrae con la grazia fredda di chi ha già deciso. Non urla, non chiude, non discute: ti congela. Poi, mesi dopo, quando avverte che potresti essere guarito, ti scrive tre frasi come fossero carezze: “Mi manchi. Ti penso spesso. Un abbraccio.” È la sua arte sottile: ghosting aristocratico, vaccinazione sentimentale, dominio psicologico gentile. Non per cattiveria, ma per abitudine al controllo e terrore dell’autenticità.
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La giornata era iniziata come tante, con un caffè lungo, una notifica sul telefono, e una mail stringata dal tono impeccabile: “Grazie ancora del pensiero.” Lui la lesse e sorrise appena, con quel misto di nostalgia e disincanto che ormai accompagnava ogni suo risveglio. La conosceva bene quella donna, o almeno credeva. Era una di quelle che si tengono sempre a posto, la permanente fresca, i vestiti sobri, la laurea in bella vista su una parete minimal. Parlava in modo elegante, come chi ha studiato l’eleganza più che vissuta. Citava Proust senza leggerlo, si muoveva tra salotti reali e digitali come un’attrice in tournée. Mai troppo coinvolta, mai troppo distante. Seduceva con un tono aristocratico, quasi materno, e quando ti lasciava entrare nel suo mondo, ti sentivi scelto. Poi, il giorno in cui provavi a toccare davvero il cuore di quel mondo, si ritraeva con una gentilezza gelida. Nessuna discussione, nessuna porta sbattuta. Solo il silenzio. Ti silenziava, e tu restavi lì a rimettere insieme i pezzi, chiedendoti dove avevi sbagliato. Ma il vero colpo arrivava dopo, settimane, mesi, quando ormai avevi imparato a respirare senza di lei. Allora tornava. Sempre con lo stesso copione. Tre frasi. “Mi manchi.” “Ti penso spesso.” “Un abbraccio.” Un vaccino. Non per curarti, ma per tenerti infetto. Una dose di tenerezza sterile, senza corpo, senza conseguenze, senza continuità. Era la sua arte. Un affetto amministrato come un sedativo. Così, mentre molti uomini cercavano verità, lei offriva eleganza. Mentre altri chiedevano amore, lei concedeva impressioni. Attorno a sé aveva costruito un piccolo regno di gabbianotti adoranti, uomini gentili e stanchi che orbitavano come lune intorno al suo pianeta emotivamente inaccessibile. E se ti ribellavi, eri tu il troppo sensibile. Il bisognoso. Il fuori posto. Era questo il femminile nuovo, raffinato e corazzato, che sapeva desiderare senza donarsi, dominare senza esporsi, lasciare senza colpa. E ora lui era lì, con il telefono in mano, a rileggere quelle tre righe. Sapeva che bastava un “ciao” per rientrare nel suo labirinto. Ma per la prima volta fece qualcosa di rivoluzionario. Niente. Nessuna risposta. Perché a volte la vera libertà non è capire. È uscire.