Donne che diventano madri e poi fuggono: tra desiderio, debolezza e bisogno di guida
Nel silenzio dei parchi e tra le voci sommesse della quotidianità familiare, si consumano storie che pongono domande profonde sul senso della genitorialità, sul ruolo dell’uomo e della donna, e sullo stato emotivo di chi, dopo aver creato una famiglia, la lascia, spesso senza guardarsi indietro.
È un fenomeno in crescita, quello delle madri che, dopo la nascita di un figlio, scelgono di allontanarsi, di voltare pagina, di inseguire un nuovo amore, lasciando spesso il padre nella posizione inattesa — e socialmente poco prevista — del genitore unico, improvvisamente centrale e totalizzante nella vita del bambino. Ma cosa muove queste donne?
Il paradosso della maternità moderna
La maternità, nell’immaginario collettivo, è spesso vissuta come apice dell’identità femminile, ma nella realtà psichica e sociale può trasformarsi in un peso, soprattutto quando la relazione con il partner non regge il carico della trasformazione. Molte donne entrano nella maternità con un’idea di compimento romantico: il figlio come frutto dell’amore, la famiglia come coronamento di un progetto. Ma se l’uomo, nel tempo, non si conferma come guida o riferimento, il terreno diventa instabile.
L’illusione dell’“uomo compagno” e il bisogno di un “uomo faro”
Spesso si dice che le donne vogliano un uomo "alla pari", empatico, vicino, tenero, disponibile. Ma dietro questa aspirazione si nasconde, a volte, una frustrazione profonda: l'uomo che non guida, che non segna la rotta, che non “fa la differenza” viene percepito come debole. Non è più il “padre della tribù” che dà sicurezza, ma un fratello maggiore, un compagno di giochi, troppo simile per essere seguito.
La donna, specialmente quando si trova in una crisi di ruolo (tra madre, lavoratrice, moglie), spesso cerca istintivamente un uomo che "traini", che la tolga dall’impasse decisionale, che dia senso a una rotta interiore incerta. L’altro uomo, quello che incontra nel momento del bisogno psicologico, appare come “salvatore”, anche se spesso si tratta di una proiezione passeggera. Tuttavia, è sufficiente per provocare una frattura.
Il figlio come “ancora” o come “peso”?
La questione più delicata è proprio il figlio. Il figlio non è, per alcune madri, un ponte d’amore verso il padre, ma diventa il simbolo del legame che le soffoca. Invece di rafforzare l’unione, la rende definitiva, “prigione”, e non progetto condiviso. In queste condizioni, la fuga diventa una risposta emotiva a un vincolo che viene vissuto come fine della libertà, della giovinezza, della possibilità di scegliere ancora.
Molte donne si giustificano dicendo di essere confuse, depresse, fragili. Ma spesso si tratta di un modo per evitare una presa di responsabilità verso la costruzione di sé come madri stabili, e verso la relazione con un uomo che, in fondo, forse non hanno mai veramente scelto con consapevolezza.
E l’uomo?
In questa dinamica l’uomo viene abbandonato, ma non rimosso. Diventa il "genitore vero", il riferimento emotivo del figlio, spesso colui che si rialza, che affronta i giudici, la scuola, le notti insonni. È ironico notare come proprio l’uomo, talvolta accusato di assenza o irresponsabilità, sia quello che resta. E paradossalmente, nella sua stabilità e nel suo amore “silenzioso”, viene rivalutato anche dalla stessa donna che lo ha lasciato, troppo tardi per rimediare.
Conclusione
Non è giusto generalizzare. Ci sono storie e storie, sofferenze vere, errori condivisi. Ma è tempo di iniziare a parlare anche di questa realtà sommersa: madri che fuggono, padri che crescono. E soprattutto del bisogno profondo, troppo spesso taciuto, di donne che cercano un uomo da seguire, non perché siano deboli, ma perché sanno — anche se non lo ammettono — che l'amore, senza guida, diventa solo vagabondaggio emotivo.
Chiosa
…e la sicurezza del futuro, e che sta facendo la differenza e la soluzione per crescere.
Per molte donne che si sentono perse, il richiamo verso un uomo “risolutivo” è irresistibile. Non cercano solo amore, ma una direzione. Una persona che indichi una strada possibile, che dia forma concreta ai sogni, che non parli solo di sentimenti ma costruisca con decisione e visione.
È l’uomo che non si lascia abbattere, che ha una disciplina, che si prende cura degli spazi, delle finanze, delle responsabilità, che sa contenere il caos emotivo e psicologico. A volte, paradossalmente, non è nemmeno quello tenero o dolce: è quello stabile, coerente, magari anche spigoloso, ma presente e coerente. Quello che, agli occhi della donna in crisi, appare come “l’albero fermo nella tempesta”.
La fuga come tentativo di rinascita
La donna che abbandona non lo fa sempre per crudeltà o egoismo. Spesso lo fa perché non riesce più a vedere la possibilità di crescere dentro la relazione che ha. È una fuga da un senso di morte simbolica: della sua identità, del suo desiderio, della sua autonomia. Insegue un uomo che rappresenta per lei un nuovo inizio, un’opportunità per rifondare sé stessa da un’altra parte.
Ma nella maggior parte dei casi, quel nuovo uomo è solo un’illusione. Non perché non sia reale, ma perché non può sopportare il peso delle aspettative irrisolte di chi fugge da sé stessa.
Chi resta, cresce
Ed è allora che chi resta — spesso il padre — affronta il cammino più duro, ma anche più vero. Crescere un figlio senza rancore, senza trasformare l’assenza della madre in una colpa trasmessa, è una delle sfide più alte che un uomo possa affrontare. Ma chi ci riesce, fa davvero la differenza.
Non ci sono facili assoluzioni né condanne. C'è però una verità: chi costruisce, chi resta, chi tiene il timone — anche tra le tempeste emotive — è colui (o colei) che davvero permette la crescita, e spesso lo fa nel silenzio quotidiano, senza bisogno di nuovi amori, ma con un amore radicato nella realtà.
Di Redazione
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