Viviamo in un tempo in cui la parola è tutto. Dove la chiarezza viene celebrata come virtù cardinale, e chi si esprime con abbondanza, precisione, trasparenza, viene considerato affidabile, autentico, persino nobile. Il parlare è diventato quasi una forma di devozione sociale: spiegare, motivare, anticipare, giustificare. Così si costruisce il patto civile, così si misura l’affidabilità affettiva.
Chi ama, dicono, lo dimostra — con parole, gesti, narrazioni dettagliate del proprio sentire.
Eppure, in un angolo dell’anima e della storia, resta l’altro modo.
Quello dell’enigma, della parola breve, tagliente, disarmante. Il silenzio che pesa più di mille dichiarazioni. L’aforisma che apre abissi invece di chiuderli. La risposta socratica che, invece di rassicurare, destabilizza. Un modo antico, misterioso, spiazzante — non meno sincero, forse, ma volutamente inaccessibile.
Chi ha ragione? Chi costruisce ponti con parole limpide, o chi lascia che l’altro attraversi da solo il proprio fiume?
Il caso di DonErman e Roberika rende emblematica questa contrapposizione.
DonErman, uomo dell’azione e della parola piena, si esprimeva con franchezza, lunghi discorsi, lettere, deduzioni, richieste precise. Diceva: “Spiegami, parliamo, fammi capire. Non lasciarmi in sospeso.”
Roberika, invece, sacerdotessa del mistero, parlava per allegorie. Si assentava senza preavviso, lasciando solo un’eco. Quando rispondeva, lo faceva con frasi rarefatte, poetiche, o addirittura con il silenzio. Diceva: “Forse non era il momento. Forse il destino.”
DonErman, allora, si contorceva nel dubbio: “Ma cosa intende? Mi vuole o no? Cosa significa quel ‘non so se sono più io o Dio che decide’?”
E scriveva, scriveva... lettere, messaggi, appelli — tutti chiari, tutti onesti.
Roberika rispondeva con un verso di Rilke, una citazione evangelica, una sparizione improvvisa.
DonErman gridava: “Parla! Chiaramente!”
E lei, con un sorriso di luna: “A volte il silenzio è la risposta più forte.”
Forse non era disamore, ma una diversa grammatica dell’anima.
Forse entrambi parlavano lingue vere, ma incompatibili.
Uno cercava luce, l’altra cercava ombra.
E così, come spesso accade, non si trattò di chi avesse ragione.
Ma solo di chi sapeva accogliere il modo dell’altro — o ne restava ferito.
Perché anche il dialogo, alla fine, è un rischio d’amore.
DonErm

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